Mario Maccaferri: un ricordo

Mio padre un giorno mi disse: “Come mai che quando arriva Mario tu sparisci?”. Era proprio così… Avevo circa 16 anni, pieno di complessi ed incertezze, non riuscivo a sopportare quel sentimento di amore/odio che avvertivo nei confronti di chi in fin dei conti aveva sacrificato migliaia di giovani vite anche per la nostra libertà.
Mio zio Mario Maccaferrri, era diventato cittadino americano ed aveva assunto il loro modo di atteggiarsi: quell’anno era venuto in Italia con moglie, figlie e Cadillac nera, decapottabile, nuova fiammante a sigillo dei suoi successi. Quella volta non riuscii a defilarmi e così mi trovai imbarcato in un giro trionfale per le vie di Cento.

Dopo un paio di anni Mario ritornò, da solo questa volta. Prese a nolo un’auto e fece il giro dei parenti – aveva sei fratelli – ed un giorno venne anche a casa mia. Aveva con sé una chitarra che teneva nel bagagliaio dell’auto e, terminati i soliti convenevoli qualcuno lo pregò di suonare qualcosa. Era l’occasione che attendeva per farci sapere, al di là delle parole, che era ancora dei nostri, che non aveva dimenticato le sue origini e che sapeva delle nostre difficoltà nei duri anni della guerra.. Fu uno splendido concerto, di quelli che misteriosamente e raramente la musica ci regala ed il mio sentimento nei suoi confronti cambiò.

Negli anni che seguirono ritornò in Italia con cadenza biennale. Intanto timidamente io mi ero avvicinato alla Liuteria ed in quelle occasioni gli mostravo i miei primi poveri lavori. E’ sempre stato generoso ed incoraggiante nei miei confronti. Parlavamo di liuteria classica: infatti, nonostante il successo mondiale della chitarra manouche, lo strumento che gli era rimasto nel cuore era il violino e prima di partire per gli Stati Uniti, aveva partecipato e vinto diversi concorsi internazionali di liuteria classica.
Sono andato a fargli visita nella sua casa vicino a New York nel 1976. Era già vecchio e stanco per le tante battaglie sostenute ma era sempre lui. La nostra giornata iniziava alle sei di mattina, a mezzogiorno si mangiava un panino ed alle sei della sera si rientrava a casa. Mentre mia zia Maria preparava la cena, noi ci sedevamo nello studio e parlavamo del nostro argomento preferito.
Non ho ancora parlato di mia zia Maria che avrebbe meritato a sua volta alcune medaglie. Era infatti la collaboratrice più preziosa e si occupava di tradurre in termini comprensibili le direttive, a volte anche solo abbozzate, e di dare seguito e compimento alle geniali intuizioni di Mario che appena vedeva in fase di realizzazione un progetto non se ne curava più di tanto, preso come era dal nuovo che si era presentato alla sua mente geniale.
Una mattina, chiacchierando con Maria, appresi che Mario era solito approfittare di quella pausa per esercitarsi alla chitarra . La sera gli chiesi di suonare qualcosa per me e vinsi le sue cortesi rimostranze certo che gli avrei fatto piacere. Divenne una piacevolissima consuetudine che si ripeté negli ultimi giorni trascorsi con loro. Quando ci lasciammo mi promise che avrebbe fatto il possibile per ritornare a Cento; non poté mantenere la promessa, ma continuammo a sentirci per telefono e per lettera. Ci ha lasciato il 16 aprile 1993 all’età di 93 anni.